Il rapporto tra musica e politica è sempre stato molto forte. Specie negli Stati Uniti, dove la figura del cantautore “impegnato” ha sempre avuto un fascino e un attenzione che non ha trovato pari in Inghilterra, Italia o Francia (seppur il filone abbia attecchito, con alterne fortune, anche nei Paesi appena citati).
Ora, come certo saprete, negli USA ci sono state le elezioni di “mid-term”, ossia il “tagliando” che arriva a metà di ogni quadriennio presidenziale.
Il voto di qualche giorno fa è stato una disfatta per il Presidente Obama, con i repubblicani che hanno confermato la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti e conquistato quella del Senato.
Un colpo non da poco, quello subito dal supposto Uomo della Provvidenza, quello della “speranza” e del “cambiamento”.
Ecco, appunto, il cambiamento. Che ci riporta al discorso iniziale, sul rapporto musica-politica. Se devo pensare a delle canzoni “bandiera” del cambiamento, me ne vengono in mente due, entrambe sono legate al concetto di “vento” (nello specifico, penso a ‘Blowin’ In The Wind’ di Bob Dylan e a ‘Wind Of Change’ degli Scorpions).
Buffo, se si pensa che Barack Obama viene dalla “Citta Ventosa”, Chicago. Da quell’Illinois il cui Governatorato è stato conquistato dal GOP.
Il vento è cambiato, dunque, per restare in tema. Ed ha soffiato via la Speranza come tale, e la speranza di Cambiamento.
Obama, con la sua narrazione da “American Dream 2.0” ha creato un eccesso di aspettative che è andato irrimediabilmente tradito. E, in questi casi, più alte sono le aspettative, più forte è la rabbia quando non le si vedono concretizzate.
Gli USA, sebbene stiano uscendo dalla crisi meglio di tanti altri (per non parlare di chi, come l’Italia, non ne sta proprio uscendo), lo stanno facendo non con quello slancio miracoloso che il primo Commander in Chief afroamericano della storia a stelle e strisce sembrava voler/poter garantire.
Il popolo americano non è più speranzoso; è incazzato. Anche perché non ha visto nessun cambiamento epocale: le diseguaglianze sociali non si sono accorciate (anzi), “il Palazzo” non si è avvicinato al popolo (anzi), non cambia la percezione (negativa) che gli altri hanno dell’America, e di conseguenza nemmeno l’atteggiamento ostili degli altri verso lo Zio Sam.
Alla faccia del “volemosebbene” universale che l’elezione di Obama aveva scatenato, almeno di facciata.
Il Presidente ha goduto di un credito di partenza non indifferente, ed ha avuto pure la chance della riconferma, ma i risultati non sono arrivati, e la gente gli ha voltato le spalle.
Per carità, sicuramente non è stato solo un “voto contro”; il Partito Repubblicano ha sicuramente dei meriti. Finalmente ha saputo fare un’ottima selezione “locale” delle candidature, ha fatto una campagna elettorale dove ha mischiato bene “protesta” e “proposta”, ed è riuscito a risultare credibile e interessante senza bisogno del populismo da Tea Party.
Ma ci sarà un motivo se nelle stesse città e negli stessi Stati dove la gente ha dato chiare indicazioni di voto “liberal” su temi socio-etici (dalla liberalizzazione della marijuana all’istituzionalizzazione delle unioni omosessuali), poi ha inopinatamente votato per mandare in Parlamento quelli del GOP, compresi antiabortisti puritani col cilicio stretto stretto…
“It’s the economy, stupid!”, e i democratici dovrebbero ben saperlo, visto che è lo slogan con cui uno dei loro (Bill Clinton), vinse e stravinse negli Anni Novanta.
Speranza e Cambiamento obamiani non hanno gonfiato il portafoglio della working class, il famoso “Joe l’Idraulico” sta peggio di prima, e te lo dice votando GOP.
Ma anche il GOP deve stare attento: al liberismo spinto in economia deve unire una visione della società meno arcaica di certi estremismi che anche nel recente passato l’hanno penalizzato.
Perché, appunto, l’uomo della strada vuole meno tasse, ma anche più diritti, più libertà di scelta.
Un Partito Repubblicano che a livello sociale ed etico provi a seguire la strada tracciata da Cameron in Inghilterra, mantenendo però la barra fermissima sul tema delle tasse e della spesa federale, può vincere a mani basse. A patto che trovi il candidato giusto che sappia incarnare questa visione e, soprattutto, raccontarla.
Insomma, nuovo Lincoln cercasi.