Oggi si vota negli USA per le elezioni di metà mandato, le famose “Midterm Elections”.
Da molti sono considerate un referendum su Trump, e in effetti l’indicatore che rappresentano è una sorta di voto sui due anni della sua amministrazione. Non bisogna, tuttavia, sottovalutare l’importanza dei candidati, sia per i 35 posti in palio al Senato (su un totale di 100 dei quali si compone) che per tutti i 435 seggi della Camera (House of Representatives). Si vota anche per il rinnovo di 36 Governatori su 50, ma l’attenzione principale è rivolta alle sfide per le due camere, poiché sono quelle a determinare la nuova composizione del Congresso.
Una possibilità è che si manifesti la temuta “Lame Duck”, ovvero l’“anatra zoppa”, che in realtà definisce la condizione del Presidente in carica tra il periodo di tempo che intercorre tra le elezioni di novembre e l’insediamento del nuovo Presidente a gennaio dell’anno successivo, anche se in Italia ha assunto un significato giornalistico che indica un Presidente privato della maggioranza al Congresso. Dal 1934, è successo solo in cinque Midterm che il Presidente in carica perdesse la maggioranza (quattro volte al primo mandato ma soltanto una volta solo alla Camera: Obama nel 2010). Quello che potrebbe succedere a Trump è la stessa condizione subita da Obama nel 2010, ma con i partiti invertiti (i repubblicani che mantengono il Senato, ma perdono la Camera). Eppure, ci sono dei dati che suggeriscono che una tenuta dell’intero Congresso per Trump è possibile.
Il fattore “Corte Suprema”
Innanzitutto, come ho scritto su “Mondo Internazionale”, l’investitura di Brett Kavanaugh a giudice della Corte Suprema, in realtà, potrebbe aver rafforzato i candidati GOP, aumentando le possibilità di Trump di mantenere la maggioranza perlomeno al Senato, ma anche in alcuni congressi distrettuali cosiddetti “Toss Up”, ovvero in bilico nei sondaggi. Nei giorni successivi alla sua nomina si è notata una spinta per i candidati repubblicani, che hanno guadagnato punti percentuali – a volte passando davanti agli avversari democratici – in Tennessee, Missouri, Florida, Arizona, Texas e North Dakota per il Senato e, specialmente, nei distretti congressuali KS03, NJ03, MN08, FL26, NY22 e WV03 per quanto riguarda la Camera. In più, il 69% dell’intero elettorato USA ritiene l’audizione in Senato per la conferma di Kavanaugh una “disgrazia nazionale” ed addirittura il 75% concorda sul fatto che la senatrice Dem Dianne Feinstein avrebbe dovuto consegnare subito la lettera con le accuse di Christine Blasey Ford. Ciò basta per dimostrare che, perlomeno, non siamo in presenza di una “blue wave”, anzi, l’effetto Kavanaugh ha causato quella che si potrebbe definire una “contro-red wave” negli Stati più incerti.
Il fattore “Early voters”
Un altro dettaglio da considerare è quello degli “early voters” (votano prima del giorno delle elezioni), ed è davvero straordinario: in almeno 27 Stati hanno già superato il record di partecipazione rispetto alle altre Midterm, e negli Stati competitivi per il Senato i democratici sarebbero davanti ai repubblicani soltanto in Nevada, dove tra l’altro dal 2016 perdono più in percentuale (-3%) rispetto al margine di vittoria del 2016 stesso (2,4%). Il fatto eccezionale è che, solitamente, sono i democratici a far registrare una grande affluenza negli “early votes”, causando ai repubblicani la necessità di un recupero il giorno dell’Election Day. Se questa volta il GOP è già davanti e non si tratta di un semplice travaso di voti dall’Election Day all’early voting, vuol dire che siamo di fronte ad uno scenario nel quale la vittoria dei candidati GOP negli Stati in cui la maggioranza dei votanti registrati sono repubblicani è molto alta. Parliamo di Indiana, Missouri, Montana, North Dakota, Tennessee e West Virginia. Da notare che alle Midterm del 2014, quando Obama perse anche il Senato, si registrò un comportamento simile da parte dell’elettorato GOP il quale, anche in quella occasione, superò quello Dem negli “early voters” nello stesso periodo di tempo corrispondente a questa analisi. In aggiunta, i dati indicano un notevole vantaggio dei candidati repubblicani per il Senato anche in Arizona e Florida, due Stati considerati molto incerti, e che contano anche diversi distretti congressuali “Toss Up” per quanto riguarda la Camera (AZ02, FL15, FL16, FL18, FL26, FL27). Infatti, una grande affluenza di elettori repubblicani in questi Stati potrebbe corrispondere a risultati positivi per i candidati GOP nei distretti congressuali in bilico negli stessi Stati. Oltre ai già citati, dunque, potrebbero beneficiarne i candidati del partito di Trump nei distretti TX07, TX23, TX31, TX32, MO02, NV03 e NV04 (i primi tendenti GOP, gli ultimi due tendenti Dem).
La previsione
Una previsione che ho elaborato per il Senato attesta i repubblicani a 54 o addirittura 55 seggi, in base a chi vince in Indiana. Per la molto più incerta Camera, invece, attenendomi agli ultimi sondaggi nei distretti più incerti e assegnando quelli testa a testa sulla base della direzione del trend, ovvero dell’andamento – positivo o negativo – dei candidati nei sondaggi, il risultato è che chi otterrà la maggioranza alla Camera lo farà per pochi seggi: addirittura potrebbe essere un 218-217, a seconda del fatto che l’incumbent (uscente) Mia Love (R) mantenga il seggio in UT04 o lo perda; anche se ci sono distretti altrettanto sul filo, come il KS02 ed il ME02, considerati “Trump zones” ma che potrebbero passare ai democratici.
Ecco una mappa con la previsione per il Senato
Ecco quella con le previsioni per la Camera
Lo “Shy Tory Factor”
Un altro motivo per aspettarsi un Trump più competitivo di ciò che dicono è determinato dal troppo sottovalutato “Shy Tory Factor”, ovvero il fattore per il quale i voti effettivamente espressi per i candidati più conservatori sono di più rispetto a quelli che rilevano i sondaggi, perché gli elettori di “destra” risultano più “timidi” nell’esprimere un’intenzione di voto durante un’indagine rispetto a quanto votano nel segreto delle urne. Tenendo conto dell’elevato numero di elettori repubblicani negli “early vote” e nei distretti per la Camera dati in bilico per 1-2 punti percentuali, è possibile che questo fattore – che a mio avviso ha già inciso nelle elezioni presidenziali del 2016 – contribuisca al mantenimento di entrambe le camere del Congresso da parte di Donald Trump, un Presidente che polarizza moltissimo e dunque potrebbe rendere l’elettorato GOP ancora più timido. Ciò spiegherebbe anche gli errori dei sondaggi, che sottostimerebbero ancora maggiormente i candidati repubblicani.
Conclusione
Tutte queste ragioni portano a ritenere che quello di domani possa essere un Congresso ancora a maggioranza repubblicana, e a sostegno di questa tesi c’è il dato fornito dall’analisi empirica delle passate Midterm: dal 1934, un Presidente che ha guadagnato almeno 2 seggi al Senato ne ha persi al massimo 12 alla Camera: vuol dire che Trump ne deve perdere il doppio per perdere la maggioranza alla Camera, dal momento che secondo le previsioni dovrebbe fare molto bene al Senato, incrementando il numero di senatori addirittura di 2 o 3 unità. Inoltre, se è vero che dal 1862 il partito del Presidente in carica ha perso alle Midterm, in media, circa 32 seggi alla Camera e poco più di 2 al Senato, è altrettanto vero che dal 1934 la media si è abbassata ad appena 3,3 seggi persi alla Camera nel caso in cui guadagni almeno 1 seggio al Senato, e diventa addirittura lievemente positiva (+0,25) nel caso in cui i seggi in più al Senato siano almeno 2. Insomma, se Trump dovesse perdere il controllo della Camera non sarebbe l’unica volta in cui viene persa la maggioranza al Congresso nonostante un incremento di seggi al Senato, ma molto probabilmente sarebbe anche la maggiore perdita di seggi alla Camera in rapporto a quelli guadagnati al Senato.